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Intervista a Francesco Del Conte

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Gabriele Landi: Ciao Francesco, quando hai avuto per la prima volta nelle tue mani una macchina fotografica?

Francesco Del Conte: Ciao Gabriele, Non ricordo esattamente a dire il vero. Da ragazzino ho provato a fare qualche esperimento con la fotografia ma l’interesse è arrivato più avanti. Comunque, il primo contatto con una macchina fotografica probabilmente è stato con una vecchia Zenit 35 mm che mio nonno aveva recuperato in Russia negli anni ‘80. 

Gabriele Landi: Quando e come è arrivato l’interesse?

Francesco Del Conte: Ho cominciato durante gli anni di studio all’accademia Albertina di Torino. In realtà ero iscritto al dipartimento di incisione ma in autonomia mi sono avvicinato alla fotografia analogica. Al secondo anno praticamente non facevo già più incisioni, litografie o serigrafie; per i miei docenti non è mai stato un problema e mi hanno supportato. Ho recuperato un vecchio ingranditore e, quando ne avevo necessità, trasformavo la mia camera da letto in camera oscura. Ho iniziato a scattare le prime fotografie utilizzando una vecchia Rolleiflex medio formato che apparteneva a una zia paterna, proprietaria di un laboratorio di stampa in provincia di Piacenza. Non è solo questo il motivo ma forse il fatto di aver avuto a disposizione questa macchina non molto maneggevole, almeno per le persone della mia generazione, mi ha portato a non fare mai street photography. Per i primi due anni ho fotografato quasi esclusivamente dei semplici utensili da cucina in diverse condizioni di luce. Ho così instaurato un rapporto profondo con lo strumento fotografico e ho trovato il mio ritmo di lavoro. Quei due anni di prove, studi sulla luce e sulla forma, sperimentazioni e talvolta disastri – una notte ho allagato di chimici fotografici lo studio di alcuni miei amici perché volevo fare delle stampe molto grandi – sono stati eccitanti e importanti per la mia ricerca successiva.  

Gabriele Landi: Lavori esclusivamente in bianco e nero come mai?

Francesco Del Conte: Per diversi anni la mia ricerca si è concentrata sul rapporto tra forma e funzione di oggetti e strumenti che provengono dal mondo dell’industria meccanica e dell’architettura giapponese. Roland Barthes sosteneva che il colore fosse un rivestimento applicato alla verità originale della fotografia in bianco e nero. Non che io sia necessariamente d’accordo con questa visione ma nelle mie opere di quel periodo, che come riferimento hanno l’eleganza essenziale delle fotografie di Bernd e Hilla Becher e di Karl Blossfeldt, il colore non era necessario e sì sarebbe stato superfluo. Negli ultimi anni ho realizzato lavori con un approccio differente, che partono dall’osservazione di fenomeni luminosi per proporre delle riflessioni sul medium fotografico. Tra questi, in realtà, c’è una serie a colori il cui oggetto di studio è il colore stesso. Ho provato a fotografare i colori del cielo al crepuscolo ma senza successo, è pressoché impossibile restituire con strumenti fotografici la vibrazione luminosa del cielo. Mi sono così chiesto in che modo i colori vengono registrati dalle diverse pellicole fotografiche e ho messo a punto un sistema sperimentale di ripresa. Provo a spiegarti il procedimento sperando che sia chiaro. Utilizzando uno strumento simile ad un prisma che si chiama reticolo di diffrazione, ho scomposto un fascio di luce nei colori dello spettro visibile. Successivamente con un banco ottico ho registrato con diverse pellicole e ad intervalli regolari piccole porzioni di questo arcobaleno artificiale. E’ sorprendente osservare come ogni pellicola restituisca i singoli colori a proprio modo. Per ora la prima serie è composta da 20 fotografie, 10 colori prodotti da una pellicola Fuji Pro e gli altri 10 da una Kodak Ektar. Mi interessa capire quante varianti esistono della stessa scala cromatica e quantificare l’impatto che la tecnologia e la stratificazione culturale di un paese hanno avuto e tutt’oggi hanno nella rappresentazione fotografica.

Gabriele Landi: Il tuo approccio alla fotografia può essere definito analitico?

Francesco Del Conte: Direi proprio di sì. Tra le due grandi fazioni che storicamente considerano la fotografia o un registratore del mondo circostante o uno strumento che permette di interpretare la realtà in base alla propria soggettività, mi considero più vicino al primo caso e alla fotografia analitica di matrice tedesca. Ciò nonostante mi piace considerarmi un esploratore del potenziale di questa disciplina. Specialmente negli ultimi anni sto provando ad utilizzare la macchina fotografica nel modo più oggettivo ed analitico possibile, al punto da provare ad eliminare la mia autorialità. Il lavoro che meglio racconta questo processo si intitola Skyglow, visibile fino a settembre nella galleria 10 A.M. ART di Milano in una mostra collettiva curata da Angela Madesani. La serie è stata realizzata fotografando le stesse costellazioni da tre luoghi con diversi livelli di inquinamento luminoso. In ogni sessione le condizioni atmosferiche, l’orario e i parametri fotografici – tempo, diaframma e pellicola – sono rimasti invariati. L’unico elemento che cambia in questo insieme di regole è la quantità di luce artificiale registrata dalla pellicola. Le stelle inquadrate sono Vega, Deneb e Altair ma non sono state scelte per ragioni estetiche, sono solo dei riferimenti nel cielo e non il mio soggetto. Durante Il periodo in cui ho realizzato le fotografie si trovano sempre allo zenit e sono quindi visibili anche dai grandi centri urbani. Queste stampe in bianco e nero possono essere osservate in diagonale, verticale ed orizzontale, non c’è un ordine o una logica estetica: esse non sono altro che l’azione ottica e chimica della luce sull’emulsione fotosensibile. I concetti di narrativa ed estetica vengono abbandonati in favore di informazioni che non dipendono dalla visione soggettiva dell’autore.

Gabriele Landi: Puoi raccontarmi come nasce e come si sviluppa il lavoro sugli incastri Giapponesi?

Francesco Del Conte: Il lavoro nasce in seguito a quello delle frese industriali. Durante alcune ricerche relative al mondo dell’architettura e dell’artigianato mi sono imbattuto in un manuale di incastri lignei giapponesi. Di origine cinese, dal 600 al 1800 questo sistema ha dato vita agli edifici civili e religiosi dell’arcipelago nipponico. E’ un caso singolare. Nel corso dei secoli i falegnami giapponesi hanno perfezionato un metodo che permette di costruire edifici senza l’utilizzo di nessun altro materiale se non il legno. Ogni incastro ha una funzione all’interno dell’edificio ma le forme dei singoli elementi non si vedono quando sono assemblati. Leggendo il manuale sono rimasto folgorato dall’eleganza di queste forme di fatto invisibili. Ho così deciso di provare ad andare in Giappone per studiare e conoscere questa tradizione. Nel 2016 ho vinto una borsa di studio offerta dal centro per l’arte contemporanea CCA Kitakyushu e mi sono trasferito per 7 mesi. Dopo qualche settimana davvero difficile in cui mi sembrava di essere su un pianeta alieno, mi sono ricaricato mentalmente e ho contattato una famiglia di carpentieri di Imabari che tutt’oggi lavora seguendo la tradizione. Gli ho commissionato la costruzione di otto incastri, realizzati interamente a mano con un cipresso locale che si chiama Hinoki. Ho successivamente fotografato gli incastri, appropriandomi dello stile tipico dei manuali in bianco e nero. Le sequenze di immagini mettono in evidenza le forme e l’assemblaggio dei singoli pezzi. Ho scoperto che le nuove generazioni non sono particolarmente interessate a mantenere in vita questa conoscenza secolare unica nel suo genere, messa all’angolo anche dalle nuove tecnologie edilizie più veloci e meno costose. Questo mette a rischio il futuro dei templi Buddisti o semplicemente delle case tradizionali che richiedono una costante manutenzione. Oltre all’aspetto formale, c’è un senso di perdita e quasi di estinzione che trovo davvero potente e meritevole di attenzione. 

Gabriele Landi: Hai fotografato anche altre cose nei sette mesi di soggiorno in Giappone?

Francesco Del Conte: Durante la mia permanenza a Kitakyushu ho vissuto in un quartiere residenziale composto da moderne case prefabbricate. Mentre studiavo e approfondivo la storia dell’architettura giapponese mi sono trovato in questa sorta di paradosso. Dopo la seconda guerra mondiale la tecnologia prefabbricata ha sostituito quella locale, influenzata dalla permanenza statunitense sull’arcipelago. Le nuove abitazioni contemporanee sono prodotte in serie e ricordano le villette anglosassoni o del nord Europa. Quelli che sembrano essere i tipici materiali impiegati – legno e mattoni rossi – altro non sono che dei rivestimenti applicati sui muri esterni. Per settimane mi sono perso a camminare in questi quartieri, dei veri e propri labirinti di “modelli” tutti uguali. E’ la manifestazione di quel senso di perdita culturale e identitaria a cui mi riferivo prima. Aleggia un’atmosfera di finzione davvero spiazzante in quei luoghi, dal mio punto di vista occidentale non sembrava di essere in Asia, forse in un set cinematografico. Ho così iniziato a selezionare degli scorci per poi fotografarli all’alba e senza persone, per rendere le immagini ancora più surreali. E’ anche stato un modo per creare un legame col territorio che mi ospitava ma soprattutto è stato il mio primo progetto realizzato in esterno. Prima di allora avevo sempre lavorato nel mio studio e mi sono confrontato per la prima volta con la luce naturale e con il non controllo totale dell’illuminazione e della scena. Da quel momento ho iniziato a osservare la luce naturale del sole e delle stelle in modo nuovo, forse è stato il preludio ai miei lavori più recenti. 

Gabriele Landi: Guardando al tuo lavoro mi sembra di assistere ad un progressivo ampliamento del orizzonte e al dilatarsi dello spazio. Quale sarà la prossima mossa?

Francesco Del Conte: Mi fa piacere sentire queste parole perché è quello che sto cercando di fare specialmente negli ultimi anni. Sto lavorando ad un progetto che rappresenta, per ora, l’ultimo studio della trilogia di opere che analizza il medium fotografico in relazione a dei fenomeni luminosi. Sto ritraendo in bianco e nero, ma prevedo un passaggio a colori, un gruppo di minerali. La particolarità di questa collezione è che ogni pezzo riflette e assorbe la luce in modo diverso, producendo di conseguenza un grigio specifico. Ogni minerale è appoggiato sullo stesso piano, fotografato con le stesse condizioni di luce e con le stesse impostazioni fotografiche. Da un lato mi interessa verificare quanti grigi la pellicola è in grado di registrare, in altre parole capire quanto è ricco il linguaggio fotografico in termini di valori tonali. Dall’altro, ed è l’aspetto per me più rilevante, propongo una sorta di provocazione: che cos’è in fondo una fotografia se non il modo in cui un dato materiale riflette la luce? Sto provando ad esplorare i fondamenti dello strumento: eliminati i giudizi soggettivi ed estetici, l’unica cosa che conta nell’esecuzione di un’immagine fotografica è il modo in cui la struttura chimica e fisica di un materiale riverbera il fascio di luce che lo colpisce. Questa riflessione va contestualizzata nella nostra cultura contemporanea, alimentata da un flusso costante di immagini quasi sempre prive di significato. Citando Vilém Flusser si potrebbero definire ridondanti. Penso ci sia sempre meno consapevolezza per quanto riguarda la produzione fotografica, anche in ambito professionale. Oggi si utilizza una catena di lavoro che mette i software al centro del processo. Le immagini si modificano seguendo una successione di algoritmi inaccessibili che ci allontanano con estrema immediatezza dalla realtà. La scala tonale, la messa a fuoco ma anche aspetti più specifici come la pelle del viso sono spesso determinati dal cervello della macchina fotografica o successivamente da un leggero tocco di dita sullo schermo del nostro smartphone. Credo anche che questa inconsapevolezza esecutiva abbia portato ad un considerevole livellamento estetico e di ricerca. Non sono nostalgico di un mondo che in fondo non ho mai davvero conosciuto, semplicemente penso sia importante riflettere su questi argomenti e capire se stiamo facendo dei passi indietro. 

Gabriele Landi: Sicuramente la facilità, e la conseguente inconsapevolezza, con cui da qualche anno a questa parte si ha accesso alla fotografia ha portato ad una volgarizzazione del mezzo. Hai mai pensato ad un possibile risvolto didattico del tuo lavoro?

Francesco Del Conte: Ogni tanto ci penso e credo mi piacerebbe. Gli ultimi lavori intendono far riflettere specialmente chi è nato nel mondo digitale e non si rende pienamente conto dell’evoluzione che la produzione fotografica ha avuto negli ultimi anni. Sarebbe bello trovare un contesto didattico che accolga la mia ricerca, sia da un punto di vista teorico-concettuale che pratico. Dopo aver conseguito un master in fotografia alla LUCA School of Arts di Bruxelles, ciclicamente penso anche che mi piacerebbe fare un PHD all’estero in condizioni che purtroppo non esistono in Italia. Non solo pensarci, dovrei iniziare a fare qualche domanda di ammissione!

Francesco Del Conte (1988, Milano) vive e lavora a Torino. Nel 2012 ha ottenuto una laurea triennale in grafica d’arte presso l’accademia Albertina di belle arti nel capoluogo piemontese. Il suo interesse si sposta sulla fotografia ai sali d’argento e nel 2013 si trasferisce in Belgio per studiare alla LUCA School of Arts di Bruxelles, ottenendo un master in fotografia. Nei primi dieci anni della sua attività, Del Conte si concentra in modo particolare sul design e sulla storia di strumenti utilizzati nei settori dell’industria, dell’architettura e dell’artigianato.

Nel 2016 Del Conte è invitato dal Centro per l’Arte Contemporanea CCA Kitakyushu in Giappone per un programma di ricerca di sette mesi che si è rivelato determinante per il suo percorso artistico. Negli anni successivi la sua ricerca iniziare ad approfondire le potenzialità del mezzo fotografico attraverso lo studio di soggetti che presentano principalmente interessi scientifici e culturali.

In una certa misura si può dire che la stessa fotografia diventa il vero oggetto della sua indagine artistica. Vincitore di premi e borse di studio internazionali, i suoi lavori fanno parte di collezioni pubbliche e private e sono stati esposti in Italia e all’estero.

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