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Gabriele Landi: Ciao Simone, che origine hanno le tue immagini?
Simone Pellegrini: Sono fioriture di copertura, sintesi inappropriate e puntuali, snodi, articolazioni strutturali. Se ci sono lotte sono comunque un composto di salvezza e offesa. Il resto è tutto quanto non somiglia; non significa ma si conforma per propensione al senso perché è il senso il grande assente, quel che duole per come manca. Il mondo, di suo, è tutto preso nella logica di una stretta, nella certezza di dovere significare, legare, affascinato da un ordinamento, da una stabilità, alla ricerca di continui riferimenti che si ampliano per poi decrescere, di verità paradigmatiche in esaustione. L’opera è invece la pratica di una instabilità, l’azzardo continuo, la frequentazione del possibile . Le forme sono faglie, slittamento che configura la superficie, somatizzazione continua, ascesa che trema nella finitudine tanto da fare dei confini assegnati un valico necessario oltre il quale poter riverberare lungo la linea mielinica di questo orizzonte di emergenze. Se tutto questo viene, allora non può che procedere da un grande, iniziale fraintendimento. Si opera nel luogo imprevisto, lì dove qualcosa non torna, si opera nel tradimento e dunque in nome di una paradossale fedeltà.
Gabriele Landi: In tutto questo l’idea di pelle ha una sua cittadinanza?
Simone Pellegrini: La pelle come luogo del cicatriziale, intesa come membrana tra due profondità, quella corporea e quella del mondo, è quella regione in cui si inscrive la traccia. Il ritardo in quanto tale, questo “senza forma” per eccellenza, ci introduce nella logica della rappresentazione che è tutta isteresi, deformazione insistita e caratterizzante… è come una caduta rallentata che si apre su una teoria di conseguite impressioni.
Si stabilisce su questa “chora” il rapporto con l’invisibile per cui si afferma un dominio secondo e apofanico rispetto a quel predominio dell’evidenza di cui si è spesso parlato.
L’arte è per me una manovra solitaria, uno scomunicarsi, la prova di una lontananza, una contromisura che finisce per somigliare ad un attentato alla vita corrente, alla letteralità delle cose. Non comprendo i conciliaboli artistici, quelli in cui ci si riunisce per fare il punto dell’arte, per destinarla o sistematizzarla riducendola ad un contenitore da riempire di valori correnti, da affiancare a grandi tragedie per cui non si può che aderire, non si può che approvare.
Gabriele Landi: Esiste nel tuo lavoro l’idea delle rêverie?
Simone Pellegrini: Si tratta più precisamente di un processo immaginifico per cui la pratica combinatoria diviene di fatto momento tanto strutturale quanto fondante.
Quel che si interseca è quel che va emergendo e quel che viene alla luce non è mai l’equivalente di una semplificazione. Questi processi di “risalita” non affinano o purificano il dato ma lo restituiscono con le sue implicazioni nel cuore pulsante del contraddittorio (e sono “sue”, cioè sono proprie del dato in risalita, tutte le assonanze, i riverberi, le associazioni che a questo si legano mentre trascolora di grado in grado). A questo risponde, perché vi assiste, chi “trema” (Conrad ndr), chi acconsente al nuovo e avendo patito una forma di delusione si dispone ad una significativa quanto necessaria rivisitazione del mondo.
Appare così, nuovamente, la figura del tolemaico “plasmatore dell’inesistente”, che fa dello scardinamento una chiamata e della periferia come della deriva storica in cui si trova un nuovo centro. È dunque ancora una volta voltarsi (oppure andarsene con il proprio segreto) nell’ennesimo mattino in cui ogni cosa deve essere rinominata, un mattino montaliano in cui le cose si “accampano di gitto”.
Essere nella rappresentazione o nel simbolico, significa perpetuare l’inganno e questo è ben diverso dal pensarsi o volersi dalla parte della verità.
Gabriele Landi: Attraverso la contemplazione, per l’osservatore, si attiva un processo di spiritualizzazione?
Simone Pellegrini: Il processo di spiritualizzazione comincia nella materia.
Chiunque abbia a che fare con la grammatica della creazione vede strisciare il propro spirito nelle pastoie della gravità, tra le macerie dei fenomeni. Soprattutto lo spirito non dimentica. Dovrebbe involarsi dal particolare al generale, insediarsi in qualche empireo, trovare riparo nell’assoluto, lontano da ogni mutamento. Eppure lo spirito non è che rapporto e continuo esperire,instabile conquista di una distanza sempre meno opportuna della successiva (che comunque verrà solo dopo una ricaduta interstiziale).
In esso tanto l’apparire quanto il divenire si rispecchiano e concentrano.
Lo spirito, si intrattiene nella via più lunga con ogni simulacro che incontra, frequenta posti malfamati e persino di dubbio gusto. Arriva fino in fondo, lo spirito!
Quali e quanti attributi dargli? Come farne una quieta allegoria?
Questo non si può, non si può farne una icona rigida, riferirsi ad esso come un che di finito; è piuttosto sinonimo di un inesauribile irrequietezza.
Ed è fuoco, di quel tipo raro che pur ardendo non consuma ma trasforma. Non un fuoco che viene da fuori ma una sorta di “flogisto” (forse la “nitzutz” degli esiliati) già del corpo e nella materia. Comunque , non tutta la materia si accende (ma quella che può, trova i migliori come i peggiori pretesti per farlo).
Gabriele Landi: Mi sembra che tu stia descrivendo un processo alchemico! Che interesse provi per le scienze occulte?
Simone Pellegrini: Riguardo all’alchemico, termine o riferimento abusato almeno quanto quello di “simbolico”, posso solo dire che anche in questo caso in principio è la materia; materia indotta, mediante artificio, in un precipizio temporale. Il fatto è che l’uomo inteso nella sua singolarità non ha tempo, non ne ha abbastanza se parametrato su scala geologica o cosmica. Egli ha potuto, al massimo fare due passi nella storia o nei fatti che ne sono derivati, produrre dicerie, aderire ad un credo, sentirsi fautore di qualcosa.
Mentre si andava fortificando la figura dello spettatore a detrimento di quella del testimone, l’opera è rimasta artificio, una sorta di compluvio, qualcosa di molto prossimo ad una scoria, un forziere vuoto e istoriato, un residuato che dovrebbe indicare un avvenuto mutamento di stato dell’artefice ma che troppo spesso somiglia ad un compito ben fatto in ossequio a certa filologia imperante. Fare un’opera coincide piuttosto con il disfarsene, con il farne a meno, con lo sgomberare il campo dell’immaginario (e scrivo questo parafrasando Meister Eckhart). Volendo mantenere una certa direzione va detto, in piena consonanza con G. Benn, che l’artefice è soprattutto un iconoclasta e che chi fa va maturando una crescente propensione alla distruzione.
(La distruzione non è mai estetizzazione della distruzione) .
Occorre accamparsi su qualcosa che sia a ridosso dell’estremo.
La storia dell’ arte ci ha dimostrato ampiamente che persino certe “rivelazioni” cadono sotto il giogo della rappresentazione e che chi vuole rovesciare ancora una volta il tavolo non può non strappare un sorriso. L’umano, questo essere senza, dà spesso il meglio di sé se costretto con le spalle al muro. Non si deve avere scelta!
Penso ad un cammino sul limitare che mi pare discenda dall’insegnamento di quel grande fingitore, di quel domenicano mancato che fu Klossowski e che certamente con Eckhart condivide porzioni del terreno di indagine di discendenza scolastica.
Della pietra (che comunque diverrebbe aurea laddove si consentisse il giusto tempo gestatorio alla Natura) , ho detto poco. Ma davvero, di tempo non ce n’è!
C’è artificio proprio perché il tempo scarseggia su scala umana.
Volendo parlare della pietra, come non notare che chiunque vi inciampa passa oltre purché non sia Cheval.
Riguardo all’oro sembra che, da almeno mezzo secolo, non ce ne sia più abbastanza per garantire alcun che e che ogni cosa possa dare dimostrazione di sé nell’estasi profana di una equivalenza diffusa.
Gabriele Landi: Come procedi nella realizzazione dei tuoi lavori. Li hai già chiari prima di eseguirli. Li progetti nel dettaglio oppure è uno scorrere libero del segno sul foglio su cui disegni?
Simone Pellegrini: Ogni configurazione nasce al di fuori dello studio. Gli schizzi vengono eseguiti sulle pagine di alcuni libri.
Le immagini nascono cosi, mentre mi dedico al pensiero altrui e soprattutto quando la parola scritta si fa sottile e acuminata.
La mano celebra allora alcune dissonanze, manifesta nei segni che produce una sorta di malcontento o forse, semplicemente, la mano reclama attenzione; non mi convince quando si muove sicura ma ammetto che si fa notare quando produce esitazioni.
Questa fase generativa si sviluppa in una dimensione minuta, raccolta e anticipatoria della traduzione che ne verrà fatta in studio.
Spesso alcuni elementi subiscono un vaglio ulteriore e per questo, di quel mormorío vergato, di quel “capriccio” di prima mano, capita che alcune approssimazioni rimangano ancora in una condizione più prossima alla potenza.
L’esecuzione pretende che il getto si faccia spartito; è questa la parte più complessa. Sono tanto resistente al già dato che persino quel “capriccio” eseguito preventivamente mi sembra già risolto e consegnato per sempre.
Eppure è un fatto che questo debba resistere ad una prova ulteriore, che debba cioè inverarsi e abbandonare la condizione più pavida del mormorío.
Quel che appare come minore deve sempre provarsi in un registro superiore.
Gabriele Landi: Questi libri su cui appunti i segni si possono considerare dei lavori assesstanti o questa fase del lavoro è da considerarsi una questione privata?
Simone Pellegrini: Il fatto è che si tratta comunque di una questione privata.
Quella prima fioritura tenace tra le teorie altrui è un richiamo.
L’arte, quella che ritengo tale, quella che non somiglia ad un compito a tema assegnato, che non parassita le grandi tragedie, che non si fa paladina dei diritti, procede sempre e comunque dalla dimensione privata. Se è vero questo, ancor più vero è che l’ arte, non consente al privato di rimanere tale, lo reclama in pubblica piazza, lo fa a buon diritto e con tutte le conseguenze che potranno derivarne. Diversamente, se quel privato di prima non acconsente a questo dislocamento rischia di essere un esercizio per cuori sensibili, per incompresi e appartati in attesa dei tempi che verranno. Ci si deve sempre e comunque arrischiare nella realtà e la realtà così come io la intendo è ben lungi dall’essere un circolo di compiacenti fintamente partecipi. L’arte è un luogo altamente improbabile in cui la vita si cerca anche se possiede tutte le caratteristiche del gioco e del divertissement nelle sue fasi iniziali. È quella cosa per cui si è portati, è lì dove un certo tipo riesce meglio di altri. Si fa presto a farne un’isola, uno specchio, un puntello… Pasternak disse qualcosa di particolarmente appropriato a proposito di chi va oltre l’inerziale della condizione d’esordio. Le resistenze vengono dopo e quella semplice oltre che naturale inclinazione entra in un nuovo, inatteso, sistema. L’oggetto si va complicando e il soggetto con esso. Si affermano leggi purché includano eccezioni e l’opera trova proprio in queste ultime un temporaneo paradossale epicentro. Ed è proprio questo che non poteva essere previsto da chi manifesta nel principio una dotazione tutta naturale. Chissà che la natura non voglia trovare altro da quel qualcosa che ha assegnato al suo interlocutore. È impegnativo ricevere un dono. Forse l’arte è la difesa di un dovere.
Gabriele Landi: Quando dici che l’oggetto si complica e che forse l’arte è la difesa di un dovere mi sembra che oltre alla dimensione poetica del lavoro entri in gioco anche quella politica. E’ una dimensione che ti interessa?
Simone Pellegrini: Il mio accenno al dovere è di riflesso rispetto ai tanti che scendono in campo per i diritti.
Mi domando chi si debba battere per il dovere?
Che cosa ognuno di noi deve a sé stesso o alla comunità nella quale si colloca?
La questione politica è una questione di risulta.
L’arte non dovrebbe darsi alla politica o tentare di compensare le manchevolezze di altri ambiti di cui mediamente si vanta una comunità civile.
C’è tutta una branca “sociale” dell’arte pronta a rispondere a stimoli che procedono da altrove, a sensibilizzarsi per tempo e su questioni puntualmente sovvenzionate.
Poco conta che certe attivazioni siano ascrivibili a furberia o alla “cattiva coscienza” di cui l’Occidente in ciascuno dei suoi costituenti giustamente soffre.
E non è neppure una questione di spontaneismo o opportunismo.
Non credo nella necessità del pungolo esterno e diffido di chi risponde a tono.
Mediamente questa novella branca dell’arte che si pensa tremendamente engagé lo fa a favore di vento e “se ne va a braccetto con un bell’argomento” già servito e pronto all’uso.
Convinti e convincenti giurerebbero di operare per la causa e mai per sé stessi.
Ai catecumeni ricordano cosa ricordare, indicano la cosa per la quale commuoversi e quella a cui pensare nel modo più adeguato , si offrono come esempio ma non sono lì per ammetterlo.
Chi prendeva posizione rischiando sulla propria pelle, chi si dichiarava nonostante la sua presunta area di appartenenza non approvasse certe dichiarazioni, un certo coraggio pasoliniano insomma, non mi sembra più reperibile.
Si dice il dicibile mentre l’informazione (come giustamente ammoniva Derrida) informa i fatti.
Si stabiliscono accordi, tutto qui e ci si accomoda su uno scranno già predisposto oltre che tiepido.
E disapprovare questo non significa conciarsi da cinico ; significa piuttosto dichiarare apertamente che sono e sarò sempre per quelle singolarità monologanti, che agiscono senza fine, che percorrono “allungatoie”, che non praticano un’arte addizionale o sottrattiva e che soprattutto cercano la propria lingua, con i “non nati” come diceva Klee o con i “folli”.
“Chiunque abbia senso di dignità, depone sull’altare la propria ora, gli dei non accettano prestiti dalle ore altrui”
G. Benn
Vorrei tentare un dialogo prolungato con la natura, vorrei non venirle a noia, vorrei poter vedere.
Potrei concludere dicendo che niente può essere considerato impolitico.
Rimetterei al centro il dovere come se questo avesse a che fare con una sorta di redenzione della materia.
Questo stesso assumere una posizione, questo dire quel che qui ho detto, è un atto politico che comunque non mi assicura all’umano considerato che per Ponge persino le cose prendono partito.
Quella cosa che si complica siamo noi, l’opera da portare a termine è l’uomo che ha quel po’ di spazio e tempo ma raramente ha luogo, che è costretto a normare perché disconosce la vita e tuttavia questo legiferare è proprio dell’uomo che non di meno può assumere carattere avversativo.
Quindi trovo sospetta ogni pretesa di uguaglianza.
Si ha il dovere, più ancora che il diritto, della diversità e difendere l’uno è difendere l’altra.
“Felice chi è diverso essendo egli diverso ma guai a chi è diverso essendo egli comune” – Sandro Penna –
Con la “colpa” o l’inadeguatezza, con la stonatura e il disagio, si può produrre la bellezza che il mondo richiede e nessun “anima bella” potrà mai comprendere fino in fondo come possa darsi una tal cosa
Simone Pellegrini nasce ad Ancona nel 1972. Vive e lavora a Bologna, dove insegna Pittura all’Accademia di Belle Arti e ha sede il suo studio. La carriera d’artista ha inizio nel 1996, durante gli anni di formazione all’Accademia di Belle Arti di Urbino presso la quale si diploma nel 2000. Dal 2003 con la personale Rovi da far calce si inaugura una lunga stagione di successive mostre, in Italia e all’estero, e fiere internazionali.
Ha esposto in Italia in istituzioni come Museo di Palazzo Pretorio Prato, Parco Archeologico Pompei, Villa d’Este Tivoli, MAMbo Bologna, CIAC Genazzano, Museo della Permanente Milano, Museo della città e FAR-Fabbrica Arte Rimini, Casa natale di Raffaello Urbino e Fondazione l’Arca Teramo, Palazzo Magnani e Collezione Maramotti Reggio Emilia, Villa Reale Monza, MAC-Museo d’Arte Contemporanea Lissone, partecipando a tre edizioni della Biennale Venezia tra gli artisti del Padiglione Italia e ad eventi collaterali. All’estero, in musei come Pablo Picasso Münster o Stadtgalerie Kiel in Germania, National Gallery of Arts Tirana in Albania, Mact/Cact Bellinzona in Svizzera.
Sue opere appartengono alla Collezione Premio Lissone del MAC-Museo d’Arte Contemporanea Lissone; Collezione Maramotti Reggio Emilia; Bologna Fiere, collezione permanente Bologna; Ca’ la Ghironda ModernArtMuseum Bologna; Collezione d’Arte UniCredit Milano; Collezione Gabriele Mazzotta Milano; Collezione Volker Feierabend Francoforte sul Meno; Collezione Hanck Museum Kunstpalast Düsseldorf; MUSA civica raccolta del disegno Salò; Palazzo Forti Verona; Collezione della Provincia di Reggio Emilia; Musei Civici Monza.
È rappresentato da Galerie Gugging di Vienna e Cavin-Morris Gallery di New York. Collabora inoltre con James Freeman Gallery di Londra e Hachmeister Galerie di Münster.







