Nello studio di Paolo Migliazza (English version available)

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Qual’ è il rapporto che mi lega al mio studio? Devo dire che questa di Gabriele è una domanda che per quanto possa apparire ovvia non è affatto semplice rispondere, ma raccolgo l’invito e provo a farlo nel modo più chiaro ed onesto possibile.

Lo studio è un’ estensione della mia persona ( e di chi come me si occupa di arte) coincide con me e con il mio stare nel mondo, volendo utilizzare un termine preso in prestito dalla cultura televisiva direi che è la mia cabina di regia, dalla quale metto a fuoco ed in prospettiva tutto ciò che mi circonda. Ma è inevitabilmente anche altro. Sicuramente un luogo trasversale dove far convivere visioni diametralmente opposte, a volte stridenti a volte in accordo fra loro, in cui le idee incontrano la ragione delle mani, di un fare che si traduce silenziosamente in pensiero materiale, in opera. Uno spazio aperto, sempre in divenire che segue l’oscillare delle stagioni emotive proprie dei nostri tempi. Un palco scenico intimo e privato in cui mettersi in scena senza inibizioni, senza pregiudizi, in cui l’errore non è più sinonimo di sbarramento o di arresto, ma rappresenta un punto di vista privilegiato sull’inaspettato, su quelle divagazioni che solo il caso sa suggerire. Un luogo in cui abbandonare le cose voglia dire lasciar loro il tempo per far decantare la forma e chiederle conto del tempo che passa, un’ autonomia silenziosa, fatta di peculiari cambiamenti che dalla superficie ci conduce verso quel centro che anima la materia. Quella porzione di spazio in cui le immagini si assembrano silenziose, confondendosi fra accumuli di polvere e macchie alle pareti.

E’ in definitiva quel luogo sulla terra che mi custodisce.

English version

In the studio of Paolo Migliazza

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What is the relationship that binds me to my studio? I have to say that Gabriele’s question is one that, as obvious as it may seem, is by no means easy to answer, but I accept the invitation and try to do so as clearly and honestly as possible.

The studio is an extension of who I am (and of those who, like me, deal with art), it coincides with me and with my being in the world; to use a term borrowed from television culture, I would say it is my control room, from which I focus and put into perspective everything that surrounds me. But it is inevitably also something else. Definitely a transversal place where diametrically opposed visions coexist, sometimes strident, sometimes in agreement, where ideas meet the reason of hands, of a doing that silently translates into material thought, into work. An open space, always in a state of becoming that follows the oscillation of the emotional seasons of our times. An intimate and private stage where one can take the stage without inhibitions, without prejudices, where error is no longer synonymous with barring or stopping, but represents a privileged viewpoint on the unexpected, on those digressions that only chance can suggest. A place where abandoning things means giving them time to let form decant and ask it to account for the time that passes, a silent autonomy, made up of peculiar changes that leads us from the surface towards that centre that animates matter. That portion of space in which images assemble silently, mingling amidst accumulations of dust and stains on the walls.

It is ultimately that place on earth that guards me.